L’arte del combattimento a mani vuote.

La ragazza della Boxe della Gru Bianca: origini ed evoluzione del karate.

Il Giappone, contrariamente a quanto avviene ed è avvenuto nelle culture occidentali, ha fatto del confronto con il resto del mondo il suo punto di forza. Leonardo Vittorio Arena conclude una sua opera con tale pregnante affermazione: «È questa volontà di aprirsi all’altro, meno accentuata nei paesi occidentali, a caratterizzare la mente giapponese. Questo sarà il suo lascito, un modello che si offre al mondo intero. Ciò le permette di superare i propri limiti e di inaugurare un dialogo fecondo con tutto ciò che se ne differenzia […] Non si teme il confronto, solo quando si conosce la propria grandezza». Questo incontro-confronto continuo con il mondo esterno, che avviene da sempre lungo substrati inconsci nella cultura giapponese, ha permesso alla società nipponica di assorbire numerosi principi e di renderli adatti alla propria sensibilità sociale; in altre parole, il Giappone ha da sempre sentito l’influenza di culture esterne ma non gli ha mai permesso di soppiantare completamente i propri principi originari, ha piuttosto fatto in modo che essi venissero assorbiti e si mescolassero per formare un tutt’uno atipico ma profondamente affascinante e significante. Questo processo è avvenuto in numerosi ambiti culturali e si è verificato anche per lo sviluppo del karate. Qualsiasi documento, testimonianza o racconto si prenda in considerazione, appare subito evidente che la grande Cina ha avuto per prima e con maggior influenza un effetto penetrante sulla cultura della piccola isola di Okinawa, a sud est del Giappone, nella quale si sviluppò la pratica del karate; ciò probabilmente non solo per questioni di vicinanza geografica ma anche per il susseguirsi di eventi storici che hanno legato inevitabilmente le due civiltà. Tale influenza è chiaramente testimoniata dal fatto che gli ideogrammi giapponesi originari della parola karate stavano a significare letteralmente «mano della Cina»: l’ideogramma che si pronunciava «kara» (o «tou») aveva la valenza di indicare dapprima la dinastia cinese Tang (618-907) e in seguito la Cina, il secondo invece si  pronunciava «te» (o «di») e stava ad indicare la mano; fino alla seconda guerra mondiale quindi tale arte marziale poteva essere indicata da due parole «karate» e/o «toudi» ed entrambe esprimevano il medesimo concetto. In questo procedimento di attribuzione grafica e significativa è chiaro il nodo storico-sociale che legava stabilmente la cultura giapponese a quella cinese; inoltre, nell’origine della parola è riflessa anche quell’ottica culturale inclusiva tipicamente orientale, per la quale un unico ideogramma è pronunciabile con due diversi suoni che tuttavia rimandano alla stessa accezione, ad indicare quell’unione dinamica e reciproca libera, propria di ogni dimensione della realtà. Successivamente, negli anni trenta circa, per rivendicare la propria indipendenza, in Giappone si cominciò ad utilizzare un ideogramma differente a sostituzione dell’ideogramma «Cina» pur mantenendo la stessa pronuncia: il nuovo carattere per «kara» significa «vuoto», inteso sia come assenza concreta e fisica che, nell’aspetto più filosofico e dottrinale del termine, come vuoto ideale e potenziale dal quale ogni cosa ha possibilità di essere generata: «tutte le forme dell’universo sono vuote di una reale esistenza». Letteralmente, dunque, kara-te significa «mano vuota». L’ideogramma «do» è un suffisso che si trova associato anche ad altre tipologie marziali (kendo, judo, aikido, kyudo) e sta ad indicare letteralmente la «Via», il metodo o l’insegnamento; talvolta a tali ideogrammi se ne associa un altro, quello che si pronuncia «jutsu», il quale si traduce con il sostantivo «arte». Nelle espressioni formate da associazioni di ideogrammi è possibile tradurre con la frase «via del karate» (karate-do), oppure «arte del combattimento a mani vuote» (karate-jutsu). Il Bubishi, più comunemente conosciuto come «La Bibbia del Karate», espressione attribuitale dal maestro Miyagi Chojun, è un testo composto da trentadue articoli, che ha profondamente influenzato l’evoluzione della disciplina ad Okinawa. Delle origini del testo non si hanno dettagli accurati, molto probabilmente è di derivazione cinese e per secoli è stato segretamente tramandato da maestro ad allievo; la sua divulgazione ad Okinawa si fa risalire a diverse teorie: quella forse più affascinante attribuirebbe la sua nascita e diffusione ad una donna guerriera. Alcune testimonianze, al limite della leggenda, narrano infatti di una ragazza, Fang Qiniang, che visse nel villaggio cinese di Yongchun e che sviluppò, come arte di difesa e allenamento, una disciplina di combattimento conosciuta come la Boxe della Gru Bianca, la quale è attualmente ritenuta una delle discipline ancestrali, antenate del karate, dalla quale hanno attinto numerosi tra i più illustri maestri giapponesi. Usanza diffusa dei praticanti di tali arti marziali era quella di raccogliere sotto forma scritta pensieri, eventi, immagini e segreti riguardanti gli studi compiuti sulla disciplina; secondo la leggenda fu quindi Fang la ragazza guerriera a scrivere e tramandare l’opera, oppure lo fecero i suoi allievi. Nonostante gli aneddoti spesso fantasiosi circa le origini del Bubishi, dal momento che esso tratta argomenti molteplici quali la medicina cinese, la filosofia, la strategia di guerra oltre che le tecniche di combattimento, è molto più probabile che sia nato dalla mescolanza di più maestri e studiosi, che hanno raccolto in quelle pagine concetti fino ad allora tradizionalmente tramandati a voce e in ambiti elitari. È un documento che ha conservato fino ai giorni nostri i precetti originari su cui si fondò successivamente il karate e che, proprio per la presenza di molteplici argomenti, testimonia che il karate-do è qualcosa che va oltre l’addestramento fisico; «il karate-do diventa un tramite attraverso il quale una più profonda consapevolezza di noi stessi consente di comprendere la nostra posizione nella vita in generale e nel mondo ove dimoriamo». Secondo quanto riportato nel Bubishi, il karate, come tutte le altre arti giapponesi, iniziò ad affondare le sue radici in orizzonti storico-culturali antecedenti al ventesimo secolo, le ipotesi più accreditate circa l’origine e la diffusione di questa disciplina sono tre: la prima è quella di un’importazione diretta delle discipline marziali dalla Cina al Giappone da parte delle cosiddette «Trentasei Famiglie», immigrati cinesi che si stabilirono nel villaggio giapponese di Kunda nel quattordicesimo secolo; la seconda fa risalire lo sviluppo del combattimento a mano vuota ad un documento del 1507 detto «Atto delle Undici Distinzioni» approvato dal re Sho Shin (1477-1526), il quale vietava agli isolani di Okinawa di possedere armi, i proprietari terrieri adottarono quindi il karate come mezzo di difesa personale e dei propri terreni, non avendo possibilità di difendersi con altri mezzi se non con il proprio corpo; la terza ipotesi è quella che lo sviluppo di tale arte marziale sia stato determinato dal personale incaricato di far rispettare la legge al quale però non veniva permesso di portare armi. Esiste una quarta ipotesi altrettanto diffusa, soprattutto nella tradizione popolare, quella che fa risalire la nascita della disciplina a gruppi di monaci itineranti cinesi, i quali durante i loro lunghi pellegrinaggi venivano spesso assaliti da soldati o ladri. Poiché i loro precetti proibivano l’uso delle armi, essi iniziarono a sperimentare le tecniche del combattimento a mani nude in Cina e le introdussero poi in Giappone, dove si differenziarono più tardi in karate, judo e tai-chi; mentre le prime due discipline si svilupparono per lo più ad Okinawa ed ebbero qui maggior diffusione, l’ultima rimase più specificamente cinese. A partire dal 1609, l’isola di Okinawa venne occupata dal clan cinese Satsuma, in questo periodo le tradizioni marziali giapponesi subirono un’evoluzione casuale, ma non smisero di diffondersi e svilupparsi, attingendo ancora una volta alle arti di combattimento cinesi. Dopo che Okinawa venne a far parte dell’impero giapponese (1879) queste discipline, pur conservando la sacralità e la tradizione ad esse legate, subirono un profondo processo di innovazione e un radicale cambiamento: da allora cominciarono a non essere più solo legate alla difesa e all’addestramento fisico, ma anche a promuovere valori e principi sociali, virtù e obiettivi da perseguire per una buona condotta di vita. Il karate venne quindi introdotto, verso l’inizio del ventesimo secolo, nel sistema scolastico giapponese «con la pretesa che i giovani in possesso di un corpo in salute e di una personalità di elevato tono morale potessero risultare più produttivi nella società giapponese»; vennero perciò rivisitati i metodi di insegnamento ed adattati a poter essere praticati anche dai bambini. Attraverso tale innovazione, il karate entrò nelle scuole giapponesi per far crescere le nuove generazioni, affinché esse potessero non solo godere dei benefici fisici che la disciplina comportava, ma anche di quelli etici e sociali. Tuttavia arrivò l’era dei conflitti mondiali, e accanto al proposito, culturalmente positivo, di impiegare il karate nelle scuole, nacque anche la prospettiva di strumentalizzare la pratica per scopi politici e bellici, il cui obiettivo doveva e voleva essere quello di «creare combattenti per la macchina da guerra giapponese, allora in pieno sviluppo». Dopo la tragica parentesi dei conflitti mondiali, il karate venne conosciuto e si diffuse nel mondo sotto le sembianze assunte durante l’introduzione nel sistema scolastico. Data la presenza di numerosi stili, che tuttavia non sono mai stati riuniti insieme per formare una tradizione completamente unitaria, il karate venne istituzionalizzato mediante l’adozione di modelli unitari di allenamento e comportamento; il Butokukai stesso, ossia l’organismo governativo nazionale per le tradizioni marziali giapponesi, fece pressione affinché anche questa disciplina, come le altre arti, adottasse una serie di norme e principi riconoscibili e regolamentati che fino ad allora non aveva mai avuto; tra i principi adottati c’erano: «La realizzazione di un programma di insegnamento unificato, l’adozione di un’uniforme standard per la pratica, un modello coerente per la valutazione accurata dei vari gradi di maturità, l’attuazione del sistema dan-kyu e lo sviluppo di una struttura competitiva». Dalla tradizione si passò così al fenomeno sportivo, dai dojo, luoghi di pratica ferrea, silenzio, sacrificio e meditazione, si passò alle palestre moderne. La leggenda diventò sport.

 

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